mercoledì 16 ottobre 2019

16 OTTOBRE SAN GERARDO

Un bell'articolo che il mio caro amico prof. Raffaele Loffa ha scritto per  Carife  ma che avrebbe potuto essere  ambientato anche a Santomenna. 
Una festa particolare che ci vedeva  tutti impegnati a percorrere la strada che da Santomenna, passando per Temete e Caposele a piedi ci portava in pellegrinaggio a Materdomini. 
Ricordi indelebili di preghiere e canti ma soprattutto di ricchi "pic nic" in compagnia dei paesani.

CARIFE E SAN GERARDO   Anche a Carife è viva la devozione e la venerazione verso San Gerardo e la popolazione, con in testa il parroco Don Gerardo Ruberto, ha accolto gioiosamente la statua “pellegrina” con le Reliquie del Santo, amato da ricchi e poveri, da nobili e borghesi, da umili e derelitti: tutti facevano a gara per ospitare il malaticcio ed esile fraticello Redentorista. Ricordo distintamente la presenza costante di questo Santo in casa dei miei nonni, sui Fossi, come si chiama il Centro Storico di Carife, allora popolatissimo, oggi quasi deserto: arrivava con la Rivista/Periodico che portava il nome del Santo,puntualmentere capitata dal postino, che bussava alla porta, entrava per scambiare qualche parola con mio nonno, beveva volentieri un bicchiere di buon vinoin sua compagnia e parlava con lui del più e del meno davanti ad un bel fuoco acceso, attizzato e ravvivato al momento nel camino, mentre fuori c’era la neve o soffiava forte la tramontana.  Erano gli anni Cinquanta del secolo scorso, vivevo con i nonni che mi volevano un gran bene;frequentavo in paese a quel tempo la IV e la V elementare, mentre le prime tre classi le avevo frequentate in una pluriclasse di campagna, dove abitavano i miei genitori.  A Carife a quei tempi non si vendevano giornali e ovviamente non c’era ancora la televisione; oltre a leggera la Rivista, l’unica lettura per me e per mio nonno era quella dell’almanacco Barba Nera, edito da Campi a Foligno, dove era possibile leggere settimanalmente e per tutto l’anno le poco attendibili previsioni del tempo (mio nonno però ci dava grande credito…) e suggerimenti utili per i lavori da fare in campagna. Il Colonnello Bernacca sarebbe arrivato molti anni dopo…con la televisione. La Rivista San Gerardo naturalmente arrivava anche in molte altre case di Carife, anche se non era richiesto il pagamento di un regolare abbonamento: mio nonno aveva fatto un’offerta una volta, andando pellegrino a Materdomini, e quel giornale, dopo la sua morte, continuò ad arrivare a me fino agli anni Ottanta del secolo scorso, perché portavo il suo nome… anche se il cognome era inesatto.  Molte vecchie copie di essa, ricordo, erano ancora presenti nella casa ormai vuota e disabitata quando, a seguito del terremoto del 23 novembre 1980, crollò e fu demolita, portandosi via tanti miei ricordi, proprio mentre ero Sindaco del paese e, in tale veste, dovetti essere io stesso, con il cuore in pena, a doverne ordinare la demolizione.  A me piaceva leggere di questo Santo, fuggito rocambolescamente dalla finestra di casa per seguire la sua prepotente vocazione: si era aiutato con una corda ricavata annodando delle lenzuola e alla mamma aveva lasciato un biglietto in cui aveva scritto: “Mamma perdonami, vado a farmi santo”. La sua vita mi appariva allora come un vero e proprio romanzo di avventura e la fantasia volava, perché eè proprio la fantasia il parco giochi più bello, più grande e più divertente al mondo. Mi piaceva leggere degli episodi e delle difficoltà che avevano punteggiato e caratterizzato la sua vita e la sua esistenza, piena di rischi e di avventure, cose che affascinavano ed eccitavano la mia fantasia di ragazzo; mi piaceva leggere di
coloro che avevano lasciato questo mondo, di quelli che si affidavano a San Gerardo e di quelli, tanti, che lo ringraziavano per una grazia o per un aiuto ricevuto; mi piaceva guardare i volti e le foto in tempi in cui scarseggiavano le macchine fotografiche, i volti dei bambini che le mamme affidavano al Santo.  Mi colpivano la sofferenza e la disponibilità del Santo ad aiutare gli altri, specialmente i meno fortunati, i sofferenti e i contadini, al cui mondo appartenevano, dignitosamente, anche i miei nonni, i miei genitori ed io stesso. Gerardo Maiella era rimasto letteralmente affascinato dai padri Redentoristi, appartenenti alla Congregazione fondata dal Vescovo e Dottore della ChiesaSant’Alfonso Maria de’ Liguori, prima avvocato e poi religioso, figlio di un nobile cavaliere di origini pugliesi. Sant’Alfonso fu autore, tra l’altro, di celeberrime melodie universalmente conosciute e cantate, tra cui “Tu scendi dalle stelle”e “Quannn’nascette Ninno”, quel Bambinello con il quale Gerardino spesso da piccolo parlava e che gli offriva perfino il panino quando aveva fame. Il ragazzo, cagionevole di salute, definito persino “inutile” da qualcuno, era fermamente intenzionato a seguire la sua vocazione e aveva già bussato invano al convento dei Cappuccini, che non lo avevano voluto tra di loro, perché ritenuto troppo gracile e debole per affrontare la dura regola e la vita monastica imposte da San Francesco ai suoi frati.  Anche i Padri Redentoristi avevano cercato di distoglierlo da questo suo proposito, ma si dovettero piegare di fronte alle insistenze ostinate di quel ragazzo sempre sorridente: alla fine lo accettarono e il 16 luglio 1732 coronò il suo sogno e pronunciò i voti. Nei conventi in cui fu destinato si dedicò alle mansioni più umili, pregando e facendo penitenza; fu persino cameriere del Vescovo a Lacedonia. Amico dei poveri e dei contadini, Frate Gerardo percorreva tutte le contrade anche come questuante, facendosi apprezzare ed amare da tutti per la sua giovialità, per la sua bontà e per il suo perenne sorriso: molti lo consideravano e lo veneravano già come santo. Fu particolarmente attivo nel corso del 1754, anno di grande carestia. Il suo “campo di azione” si estendeva a tre Regioni: Campania, Puglia e Basilicata, di cui il 21 aprile 1994 sarebbe statoproclamato Santo Patrono da S. S. Giovanni Paolo II. L’anno dopo, il 16 ottobre 1755, ora giorno della sua festa, consumato dalla tisi,moriva a soli 29 anni a Materdomini, frazione di Caposele, in un piccolo santuario mariano, dedicato appunto alla Mater Domini, già meta di molti pellegrini e affidata proprio alle cure dei Redentoristi. Gerardo, che diceva sempre “La fede mi è vita e la vita mi è fede” ,“Volontà di Dio in cielo, volontà di Dio in terra”, fu dichiarato beato da Papa Leone XIII il 29 gennaio 1893 e Papa Pio X lo canonizzò l’11 dicembre 1904. La causa di beatificazione era iniziata, in ritardo, a 80 anni dalla sua morte. Il periodo in cui Gerardo visse fu un periodo difficile e tormentato, funestato da carestie, da pestilenze e da eventi luttuosi, come il tragico terremoto del 29 novembre 1732, che distrusse molti centri della nostra zona e tra questi anche
Carife, che fu praticamente rasa al suolo, unitamente alla Chiesa Collegiata di San Giovanni Battista. San Gerardo fu proclamato Santo in uno dei momenti più tristi della nostra storia: l’emigrazione verso le Americhe falcidiava la popolazione italiana, soprattutto quella dell’Italia Meridionale; molti bambini non sopravvivevano alle malattie ed alla povertà e molti chiamavano Gerardo i propri figli, in ossequio al Santo, da cui si aspettavano miracoli ed un aiuto concreto per la salvaguardia del raccolto, in un mondo prevalentemente contadino.  Il Prof. Roberto Cipriani, docente universitario e sociologo italiano, in un suo importante saggio intitolato “San Gerardo e l’odierna devozione popolare”, pubblicato dall’Università agli Studi Roma Tre, si domanda:
“Ha ancora un seguito la devozione popolare verso Gerardo Maiella, il laico redentorista nato nel 1726 e morto or sono due secoli e mezzo? Può una forma di religiosità popolare durare così a lungo dopo la fine dell’esistenza terrena di un personaggio che da vivo tanto aveva attratto per le sue doti di carità, per il suo messaggio di solidarietà, per la sua pietà semplice e didascalica, per la sua opera di costante misericordia verso i poveri, i diseredati, gli emarginati?”.
La risposta dell’illustre Sociologo non poteva e non può che essere affermativa: basta recarsi a Materdomini in un giorno qualunque ed assistere all’arrivo di tanti pellegrini e fedeli provenienti da ogni parte o aggirarsi per i paesi e chiedere della devozione a San Gerardo, presente ovunque nel mondo in cui ci siano Italiani originari dei luoghi percorsi dal Santo di Muro Lucano o che ne abbiano semplicemente sentito parlare. In passato, ma anche oggi, sebbene più sporadicamente, si organizzavano pellegrinaggi sulla tomba del Santo a Materdomini: si andava a piedi da Carife, partendo di buon mattino allegri e vocianti, con la gioia negli occhi e cantando le canzoni che la religiosità popolare e la fantasia degli autori ormai scrivevano, cantavano e diffondevano. I ricordi da bambino riaffiorano prepotentemente: con Aurelio Fierro, conterraneo di Montella, cantavamo “Sono pellegrino, non risento del cammino, San Gerardo Mio prega per me”, oppure “San Gerardo quann’era guaglion’ faceva la Cumunion’…ed eravamo felici, salendo verso Guardia dei Lombardi, per raggiungere Sant’Angelo, Lioni e poi finalmente Mater Domini, dove ci si univa ad altri gruppi che arrivavano da ogni parte e mescolavano il loro canto al nostro, con inflessioni dialettali diverse.  Molte persone, soprattutto donne, salivano scalze e in ginocchio la lunga scalinata che portava alla Chiesa, dov’erano custodite i resti mortali del Santo. Di lontano arrivava alle nostre orecchie il fruscìo dell’acqua delle sorgenti di Caposele.   Altre volte si andava a bordo di camions adattati a trasporto di persone: seduti su scanni di fortuna, sballottati a destra e a manca, andavano per il Formicoso in un viaggio avventuroso e spesso scomodo, ma la soddisfazione era grande: una volta ci sono andato da piccolo con mio padre e mia madre e ricordo ancora quel viaggio. Ricordo la prima volta che arrivai a Materdomini: fui affascinato dalle montagne che sovrastano Caposele e, soprattutto, da un maestoso palazzo con tante finestre: non ero mai uscito da Carife e non avevo mai visto nulla di simile. Solo
un paio d’anni dopo (era il 1955 e di anni ne avevo ormai undici…), a Caserta, sarei entrato in un edificio ancora più grande: l’Istituto Salesiano, dove avrei passato otto anni, tra i più belli della mia vita: lì avrei conosciuto Don Bosco e San Domenico Savio, un santo morto a 14 anni della stessa malattia di San Gerardo, la tisi, che in passato falcidiava la popolazione. C’era tanta gente quel giorno a Materdomini e tante bancarelle che vendevano di tutto, immagini del Santo, giocattoli mai visti, lunghe file di nocciole, taralli zuccherati, “copete” (torroncini avvolti in carta colorata) torroni sistemati l’uno sull’altro: guardavo con gli occhi sgranati e non riuscivo a capire come mai la gente comprasse fagioli, ceci, origano, formaggio, tutte cose che a casa nostra non mancavano. Conobbi e assaggiai per la prima volta nella mia vita ledolci e croccanti carrube, che mio nonnochiamava Fasc’nedd’ ed anche “Sciuscelle”. Mangiai anche certi saporitissimi e profumati biscotti di colore marrone, che mia madre, originaria di Sturno, chiamava “li tatuni”. Ancora oggi ne vado pazzo, pur essendo diabetico, e ogni volta che ritorno con la famiglia a Materdomini li cerco e li compro: piacciono a tutti.  Sarei ritornato altre volte n seguito a far visita a San Gerardo; negli anni Settanta, ormai sposato e già padre, con mia moglie, portammo a benedire la macchina nuova e con noi c’era nostra figlia Clotilde (il nome di mia madre…). Avemmo modo di conoscere un frate gentilissimo, disponibile ed affabile e rinnovai anche l’abbonamento alla Rivista…questa volta con il cognome giusto. Conserviamo ancora, tra i ricordi più preziosi, la foto di nostra figlia su di un finto cavalluccio macchiato, scattata da un fotografo con una di quelle fotocamere di una volta.  Il disastroso terremoto del 23 novembre 1980, purtroppo, cancellò molto di quell’atmosfera magica che avvolgeva il Santuario: le tante comodità che oggi si hanno a Materdomini, gli spazi immensi che circondano la nuova e moderna Chiesa, la comodità degli accessi stradali, il fruscìo dell’acqua che si sente sempre di meno (non perché io sia diventato sordo per l’età…) hanno un po' offuscato ed appannato l’incanto che una volta circondava il Santuario: solo la facciata della vecchia Basilica, la sua scalinata ed i tanti pellegrini che si aggirano per la frazione di Caposele evocano il posto dell’anima…che vidi da bambino e ricordano che il fascino esercitato da San Gerardo è immutato nel tempo. Pellegrinaggi in camion, nel secolo scorso, se ne facevano anche al santuario Di San Michele Arcangelo sul Gargano, Santo al quale Gerardo era molto devoto, e al Santuario dell’Incoronata a Foggia e anche in queste occasioni, tutti insieme si cantava, soprattutto quando ci si inerpicava su per le balze e le curve che portavano a Monte Sant’Angelo. Poi ognuno ci sarebbe andato da solo…con la propria macchina, ma tutto sarebbe stato diverso. Intanto San Gerardo, il Santo della sofferenza offerta a Gesù, il Santo dei poveri e degli umili, paragonabile a San Francesco, a Padre Pio, a Suor Teresa di Calcutta, ecc., “l’affamato insaziabile della volontà divina”, è stato universalmente sempre più invocato come protettore delle donne incinte e, di conseguenza, dei bambini, cui spesso in un recente passato veniva fatto indossare l’abitino di San Gerardo (A volte lo hanno indossato anche le donne adulte).
Una petizione popolare, firmata da migliaia di fedeli e devoti e da centinaia di Vescovi, ha chiesto ed ottenuto la proclamazione di San Gerardo a Patrono delle mamme e dei bambini. Più di un milione di pellegrini visitano annualmente la sua tomba nella vecchia basilica e ascoltano la messa nella nuova chiesa moderna, in cui campeggia e sovrasta una statua grandiosa del Cristo Redentore sospesa nel cielo. In un ambiente accogliente e silenzioso, che invoglia a pregare,talora accompagnati dalle musiche provenienti da un bellissimo presepe “napoletano” si aggirano i fedeli pellegrini alla ricerca di se stessi, vogliosi di affidare a San Gerardo le proprie speranze, il proprio dolore e le proprie sofferenze, convinti che il Santo non mancherà di intercedere presso la Mater Dei e presso il Redentore, che lui tanto amò: un posto dell’anima insomma… In un mondo che corre ormai troppo in fretta, che vede tanti disperati mettersi in mare su mezzi di fortuna per raggiungere nuovi lidi, sperando di dare un futuro diverso ai figli o imprimere una svolta alla propria vita, un mondo in cui ne succedono di tutti i colori, che usa violenza alle donne, che ha legalizzato l’aborto, un mondo in cui tante donne lo fanno ancora clandestinamente o abbandonano i propri neonati in un cassonetto dell’immondizia, fa davvero tanta tenerezza ed è sconvolgente, ma nello stesso tempo confortante, commovente e meraviglioso, entrare nella “Sala dei fiocchi”, allestita nel Santuario, e vedere le pareti, e persino il soffitto, letteralmente ricoperti da migliaia di fiocchi rosa ed azzurri, che le mamme donano al Santo per ringraziarlo della loro maternità… Quest’anno è toccato a Carife l’ambito onore di fornire al Santuario di San Gerardo l’olio che brucia nella lampada perenne che rischiara la tomba del Santo, amico degli umili, proprio come avviene per la tomba di San Francesco ad Assisi., nella cui Congregazione voleva entrare da piccolo.  Carife produce un ottimo olio, noto ed apprezzato, e, nonostante l’annata non favorevole causata dalle gelate subite dagli uliveti, la popolazione ha risposto alla grande, con il consueto slancio e con l’abituale generosità: il fascino esercitato dalla figura di San Gerardo e la devozione e la venerazione di cui qui gode hanno facilitato il compito di chi ha curato, novello “questuante” come lui, la colletta. San Gerardo vivrà in eterno nel cuore di Carife e dei Carifani e soprattutto nei miei ricordi.

domenica 13 marzo 2016

Una breve storia di Santomenna ( a breve anche una versione in inglese)


Brevi cenni storici 2

Santomenna, che si erge su un crinale a 540 metri sul mare, ai limiti della provincia di Salerno, stupisce chi lo visita per la posizione paesaggistica montana di notevole fascino oltre che per la sequela di chiese che, prima del terremoto del 1980, si snodavano dall’entrata del paese fin su al Convento: per trovare una giustificazione all’abbondare di luoghi sacri, sproporzionato alla popolazione, bisogna risalire alle origini di questo paese .

Sebbene si abbiano testimonianze che la valle del Sele fu abitata secoli avanti Cristo, non vi è prova diretta di insediamenti nel territorio dell’attuale paese, né si conosce un toponimo precedente all’attuale.

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Pare che Santomenna si sviluppò e nacque ufficialmente attorno all’860 dopo Cristo nelle immediate vicinanze del Convento dei monaci Benedettini a cui i conquistatori Longobardi donarono queste terre. La presenza dei frati Benedettini e del loro convento attirò una quantità di gente che gravitava intorno al convento (in cerca di lavoro e di protezione dall’invasioni barbariche), espletando le mansioni necessarie allo sviluppo della comunità.

Questo insediamento assunse il nome di San Menna, santo venerato in loco, un santo (Menas), non dimentichiamolo, egiziano ed il cui culto fu probabilmente introdotto dai monaci Basiliani arrivati

anche a Santomenna, intorno al VI secolo d.c., al seguito dei Bizantini, quando questi sottrassero l’Italia ai Goti.

 

( Il ritrovamento di alcuni materiali ceramici databili al V-IV sec. a.C. trovati all’Abetina e a l’Aulecina testimoniano presenze umane nel periodo greco, lucano e romano.

Sicuramente in epoca Romana molti paesi sorgevano lungo una strada antica che dalla Sella di Conza (Appia) costeggiando le montagne arrivava sino a Polla (Popilia).

Da qui partiva anche “la via della Seta”)

 

Come già accennato, non si conosce un toponimo precedente, anche se ci sono testimonianze dell’esistenza di un borgo molto più antico. Certo è che, quando i Benedettini soppiantarono i Basiliani, trovarono una comunità rurale la cui sussistenza era legata alla vita del Monastero. La presenza dei monaci continuò fino al terremoto del ‘990 quando, crollato il convento, i monaci, anche a causa di numerose incursioni Saracene, lasciarono l’insediamento.

Nel 1200 Santomenna divenne feudo del vescovo di Conza, perciò vide sorgere un palazzo vescovile, successivamente ampliato, poiché il vescovo decise di creare nel paese una delle sue dimore (Seminario) per sfuggire i rigori del clima conzano. Un’altra residenza fu stabilita nel casale di S. Andrea di Conza che ha funzionato sino ai giorni nostri come Seminario. Di seguito la copia dell’editto di riapertura avvenuta poi nel 1888/89.

 

(  I Goti, di origine germanica, in zona, ebbero duri scontri con i Bizantini, rappresentanti dell’impero romano d’Oriente che riuscirono a prendere il potere per poco, in quanto nel 568 un altro popolo germanico, i Longobardi, si insediò, nell’Italia meridionale, con il Ducato di Benevento (570-71 d.c.). Il Ducato venne suddiviso in Distretti, ognuno amministrato da un governatore chiamato “Gastaldo” e, solo successivamente “Conte”: da cui “gastaldati” e “contee”. I terreni di Conza, verosimilmente, costituirono un “gastaldato”. Proprio da Conza, nell’839 d.c., partirono dei congiurati che riuscirono ad ottenere la scissione del grande Ducato di Benevento in tre principati minori: Benevento, Capua e Salerno (Citra) che negli anni successivi si combatterono tra loro. Santomenna fu compreso nel Principato di Citra o Citeriore che aveva i suoi confini al di là di Conza, verso Frigento)

 

Nel medioevo Santomenna ebbe notevole importanza politico-amministrativa nell’alta valle del Sele, in quanto sede di un tribunale civile ed amministrativo e di un seminario diocesano.

Purtroppo l’episcopio, centro della vita della comunità, fu fortemente danneggiato dal terremoto del 1561. Nel 1582 sulle rovine del monastero benedettino sorse il convento dei cappuccini, con una chiesa intitolata anche a S. Francesco. Il palazzo vescovile venne invece ricostruito dall’arcivescovo Paolo Carovita nel 1675.

Nel 1647, intanto, l’arcivescovo Ercole Rangone, modenese, aveva provveduto ad ampliare la Chiesa madre. Sia Ercole Rangone che Paolo Carovita vennero sepolti nel convento che a sua volta venne ampliato nel 1729 da Padre Battista De’ Ruggeri.

 

Alla fine del diciassettesimo secolo il vescovo teatino Gaetano Caracciolo  ampliò anche il palazzo vescovile e costruì la chiesa di San Gaetano e diede nuovo lustro al paese tenendo nel piccolo

centro due sinodi Diocesani.

Nel periodo napoleonico Santomenna, a seguito della scissione del principato di Citra, fu annessa al distretto di Campagna. Nello stesso periodo, venne chiuso il convento dei Cappuccini e fu abbandonato il palazzo vescovile (episcopio) di Santomenna che venne infine destinato a sede municipale.

Venuta meno l’antica struttura ecclesiale, le diocesi furono ridimensionate e quella di Campagna passò sotto l’amministrazione dell’arcivescovo di Conza, che si stabilì a Campagna. Di conseguenza l’episcopio di Santomenna decadde dal suo ruolo e l’importanza religiosa del paese andò scemando.

Quando nel 1860, Garibaldi giunse a cavallo ad Eboli, una squadra di garibaldini venne ad occupare anche l’alta valle del Sele. Nel 1880 un Regio Decreto di Umberto I autorizzò il cambio del nome

da Santa Menna a Santomenna.

Nel 1886 venne soppresso definitivamente il Convento dei Cappuccini.

(Alcuni testimoni riferiscono di aver sentito dire che l’ultimo monaco ha abbandonato il Convento agli inizi degli anni venti.).

Dopo l’unificazione, i paesi a sinistra del Sele, tra cui Santomenna, furono aggregati alla diocesi di Salerno e, nel 1921, passarono alla diocesi di Campagna, nuovamente autonoma. Nel frattempo grossi mutamenti si avvertirono nell’assetto socio economico del paese che visse in modo drammatico la crisi che, dall’inizio del ¢900, portò all’abbandono dei centri minori e diede il via all’esodo migratorio che spopolò anche Santomenna.

Come vedremo nell’apposito capitolo, l’alta valle del Sele, alla fine della seconda guerra (1943) fu teatro della ritirata dei tedeschi che avvenne sotto un martellante bombardamento degli Anglo-Americani.

Vari terremoti hanno segnato la storia di questo paese che comunque, anche dopo quello devastante dell’1980, ha sempre orgogliosamente rialzato il capo e messo in campo tutte le energie per ritrovare, tra tante difficoltà, l’identità di comunità provata ma non spezzata.

 

 

martedì 25 febbraio 2014

ESPRESSIONI DIALETTALI ... E NON SOLO


 

Alcune espressioni dialettali


Molte forme dialettali sono ormai scomparse e le ho potuto recuperare solo ascoltando gli anziani emigranti che le hanno ancora conservate. È stata una ricerca di termini molto limitata, ordinati a caso, man mano che ascoltavo o ricordavo le varie espressioni. [1]

Nel raffigurare i suoni del dialetto sammennese sono dovuto ricorrere al cosiddetto metodo “impressionistico”. In altre parole ho cercato di trascrivere un suono come lo percepivo durante la sua emissione, per cui talvolta la trascrizione di una stessa parola può risultare diversa. La scrittura è sicuramente deficitaria e soggettiva: sono certo di non essere sempre riuscito a trascrivere i suoni in una fonetica corretta. Molti termini possono essere ascoltati nelle interviste riportate nel CD allegato.

 
la cunserva     estratto di pomodoro che si otteneva mettendo il passato di pomodoro ad essiccare al sole in capaci “spase”

lu stiavucchl’  il fazzoletto che si avvolgeva attorno al contenitore di alluminio (caccavella) in cui si metteva il cibo da mantenere caldo per portarlo in campagna (Video 1 Angelamaria Castucci v. Iannone))

fritt’l                           residuo di grasso di maiale da cui si era ricavato la “‘nzogna

quart’legrhà   recipiente in legno che serviva a portare il pranzo in campagna e che veniva portato sul capo dalle donne

lu striugrh’     un locale anche più piccolo “de lu rugrh’” che era il locale in cui si rinchiudevano le galline

la sparegrha   un tovagliolo arrotolato che le donne mettevano in testa quando dovevano reggere un peso: una sorta di cuscinetto ottenuto avvolgendo un panno vecchio e che serviva ad ammortizzare i pesi che le donne portavano sul capo (‘lu varril’, ‘lu canistr’; ecc.)

lu canistr’       cesta in vimini utilizzata, tra l'altro, per portare il pranzo in campagna o, in occasione di lutto, ai parenti del defunto. (Tradizione che da questa prende il nome: ‘lu canistr'); per avvenimenti più gioiosi era utilizzata per trasportare il corredo della futura sposa dalla casa materna alla propria

lu mezzett’                 unità di misura e strumento per la pesa del grano, corrispondente a circa 22 kg

la spasa           grosso piatto dal quale mangiavano più persone contemporaneamente. Quando si mangiava polenta c’era la corsa a chi arrivava prima al salame posto al centro

fiaschiegrh’     (a Castelnuovo chiamato ‘lu cicen'): contenitore in terracotta utilizzato esclusivamente per l'acqua, se di legno, veniva utilizzato per bere il vino

la stateia         una sorta di bilancia in ferro che serviva a pesare il grano, e non solo, sull'aia, dopo la trebbiatura

lu vattatur’     attrezzo costituito da due pezzi di legno tenuti insieme da un laccio di cuoio, utilizzato per battere le spighe di grano

r cannegrh'     sorta di guanto ricavato dalle canne verdi, che serviva per proteggere la mano sinistra con la quale si teneva “lu ierm't”

r manuegrh’   fascia di cuoio per proteggere l'avambraccio dalla falce quando si mieteva

lu iermet’        piccolo fascio di spighe corrispondente alla quantità massima che il braccio del mietitore poteva contenere

la gregna        fascio di grano corrispondente a circa 10 iermet’, che veniva trasportato fino all'aia e ammucchiato per formare ‘lu pignon'

l’ausiegrh’                  formato da 10 gregn’

lu vurrgrhon’ formato da 40 gregn’

lu pignon'       struttura composta da 500/600 gregn’ con la tipica forma a tetto sia per esigenza di stabilità che per far scorrere l'acqua di eventuali piogge

la p’satura                  battere il grano nell’aia

la fauc’                       falce per mietere

lu pusatur’      sorta di mortaio in legno o in pietra lavorata

lu c'rnicchi’     attrezzo in legno e ferro utilizzato per cernere il grano

la seta             attrezzo in legno e ferro utilizzato per cernere la farina

l’airal’             lu c’rncchi’ più grande per separare le granaglie

lu callarul’      pentola in rame che, appesa ad una catena sul fuoco, serviva per cucinare

lu varril'                      recipiente in legno che serviva ad attingere e trasportare acqua dalla fontana

la naca            culla in legno di dimensione e forma adatta ad essere portata sul capo dalle donne anche quando andavano a lavorare nei campi (una bella descrizione nel Video 38)

la guantiera    vassoio che di solito si utilizzava durante i matrimoni per offrire i biscotti o per servire un caffè o un liquore all’ospite

lu panuozz’               detto anche “lu scanathiegrh’” o “pane r grantini’ “

munn’là          quando si puliva la base del forno con un’asta alla cui cima si legavano le felci

s’appurava     quando prenotavi qualcosa (una giornata di lavoro o il giorno in cui si voleva fare il pane)

lu fucarazz’    fuoco, durante la festa, tanto forte da tardare il passaggio della banda musicale

a cummannà             quando la responsabile del forno veniva a dirti di preparare l’impasto del pane

scann'tiegrh’               sgabello usato per lo più quando si stava davanti al camino

r scarfogli’      le foglie secche delle pannocchie di granturco che si usavano per riempire materassi e/o cuscini al posto della lana

la fusina          recipiente in argilla per la conservazione di prodotti sott'aceto, sott'olio, sotto sugna

la pignata       contenitore in argilla adatto alla cottura dei fagioli vicino al fuoco

pignatiegrh’    pentolino in argilla o di metallo

maciniegrh’    macinino da caffè o da pepe

lu tien' vacil’   supporto in metallo per il bacile e la brocca

lu vacil’           recipiente (bacile) che conteneva l’acqua per lavarsi

micciariegrh’ i fiammiferi

la vocch’la      la gallina che covava i pulcini

lu porta lum’ porta lume ad olio.

fierr' da stir'    ferro da stiro a carbone

sauzicch’        salsiccia

supr’ssat’                    sopressa

la ‘nzogna                  grasso di maiale usato per friggere

l’erm’c                        tegola del tetto

lu criatur’                   bambino/bambina

lu train’                      un carro trainato da cavalli

auann’                        quest’anno

la ‘uagliotta                la ragazza

lu ‘uaglion’                 il ragazzo

li capigrh’                   i capelli

la leuna                      la legna

lu scarpar’                  il ciabattino

lu journ’                     il giorno

r  l’nzol’                      le lenzuola

lu cacciafum’             il camino

la gagrhina                la gallina

li p’ till’                       i pulcini

nu cauc’‘ngul’            un calcio nel culo

lu p’trusin’                 il prezzemolo

la m’gliera                  la moglie

la jotta            acqua in cui si erano cucinati i maccheroni

lu tian’            una padella

‘mmutat’                    vestito a nuovo, elegante

nu vrazz’                   un braccio

scuragh’                     si fece scuro

lu vient’                      il vento

lu liett’                        il letto

l’auciegrh’                  l’uccello

la preta                       la pietra

lu t’zzon’                    il tizzone

na bucija                    una bugia

nu palomm’    un colombo

lu Paganes’     uno di Pescopagano

nu viecch’       un vecchio

lu maccatur’   il copricapo, foulard

lu preut           il prete

lu l’nzul’         il lenzuolo

lu pagliar’                  il pagliao

lu jir’tal’                     il ditale

r nuzz’l’                      i noccioli

lu curtiegrh’               il coltello

‘mbiett’                       nel petto

na c’rasa                     una ciliegia

la ‘nzalat’                   l’insalata

nu muzz’ch’              un morso

ciamuorr’                   forte raffreddore

na ‘mmasciata una ambasciata ( dichiarazione d’amore)

lu sunett’                    armonica a bocca

vai for’                       vai in campagna

lu ricanett’                 l’organetto      

r criatur’                     le creature

t’adduorm’                 ti addormenti

lu calamaj                  il calamaio

r’uogli’                        l’olio

‘nfrac’tat’                   fradicio

l’acc’                           il sedano

la fucagna                  il focolare

li fasul’                       i fagioli

la callar’                     la caldaia

lu jac’ niegrh’             piccolo strumento per friggere

fuscegrha                   contenitore per il formaggio fresco

r pignate                    le pignate

li pignatiegrh’            piccole pignate

la pett’nessa               un pettine largo

lu pett’niss’     il pettine stretto usato per liberarsi dai pidocchi

r c’ntregrhe                i chiodi alle scarpe

re curriol

e li lacc’          stringhe per le scarpe

ru siv’             grasso di animale che si usava anche per ammorbidire il cuoio delle scarpe

lu s’sim’r’        una spezia particolare, tipo menta, che cresce nei posti molto umidi

la fazzatora    la madia in cui si conservava la farina e la si ‘mbastava’ con il lievito (crescente) necessario per la “’mbastata” successiva o da restituire alla vicina che lo aveva prestato.

lu lahenatur’  il mattarello per stendere la pasta e magari fare “r lahan’”

lu scupigrh’                per pulire dalla farina ‘lu tumpagn’

lu murtar’

e lu p’satur’    un mortaio (di legno o pietra) ove pestare e sminuzzare

la buffetta       una tavola più o meno grande usata di solito per mangiare (apparecchia la buffetta!)

lu tumpagn’               una tavola per tirare la sfoglia

lu t’ratur’                   il cassetto posto sotto al tavolo

furcin’

e cucchiar’      forchette e cucchiaio

lu cuopp’                    il mestolo

accauzare       rincalzare- zappare

la zoca                        la fune

la varda                     la sella dell’asino

r ‘fascegrh’                 un fascio di rami secchi

la  vrachetta              la patta dei pantaloni

lu strumm’l                una trottola di legno con lo spago

la furceggrha  forcella di legno

r cul’nnette     comodini ai lati del letto e sotto         

lu pisciatur’    vaso da notte

r lahan’                       tagliatelle di farina di grano duro

 

Espressioni tipiche

m’ vach’a curcà                     vado a coricarmi

e’ jut’ a met’                                       è andato a mietere

n’a rocchia r pecor’               un gruppo di pecore

li pienn’c’ r pummarol’         un grappolo di pomodori

era serut’ sop’a na scaffa      era seduto sopra una pietra piatta

ru pane s’ scr’ scintava         il pane perdeva la crescenza

’nserte di agli, cipolle             una treccia di aglio e/o cipolle e/o peperoni secchi

t’ canosc pir a la vigna mia rivolto alla statua del Santo:

“ti conosco pero alla vigna mia


Canto alla processione: 

“Ze Maria r Capon’” dava il via e le altre donne rispondevano

 

E una è la stella e doij so’ r culonn’

E oji è la Madonna e la vulimm’ accumpagnà

Viva Maria e viva Die che la criò

E doij so’ r stell’ e doij so’ r culonn’

(il ritornello proseguiva sino a dodici)


Gli amori a lu canal’

Figliola chi vai a l’acqua Ij pur a l’acqua veng

Tu inghi lu varril e ij t’aiut a ‘nbonn’

Queste sono alcune espressioni (alcune già sopra riportate) che ho raccolto chiacchierando con alcuni amici sotto la Chiesa. Trascriverle non è facile. Per questo ho riportato su CD allegato la registrazione integrale in modo da poter permettere il confronto della pronuncia. Audio reg. n° 5 .

P’scraia; p’scrigrh’; muman’; la spasa; lu m’bastapan; la fazzatora; lu tumbagn’; lu iatarul’; la varda; la p’stlena; la v’sazzottla; lu cernicch’; lu catniegrh’; la seta; la catarina

 

Le misure

la mietera       ¼ de lu quart’

lu quart’         ¼ de lu tumml’  o ad ½ mezzet’

miezz’ quart

lu mezzett’

lu tumml’: 2 mezzett’ (Un quintale di grano era più o meno 5 mezzett’).

Lu mezzett’ a curm’ o a barra: qualcuno ha ricordata che il grano si comprava a “cumolo” e si vendeva a “barra”.

Lu mezzett’ è un antico strumento o unità di misura, sia del terreno che di derrate alimentari, quali grano, granone, orzo, avena, olive, ecc. Quello utilizzato come unità di misura per derrate era un recipiente a forma cilindrica (a tronco di cono): era costituito da doghe di legno tenute insieme da cerchi leggeri in ferro e conteneva, colmo e raso, circa 20 kg di grano.

 
Esistevano anche multipli e sottomultipli:

il “tomolo” (in dialetto lu tumml’) conteneva due mezzett’.

C’era poi la “misura”, che conteneva due Kg di grano e il “quarto”, equivalente a metà “mezzetto’”.

 
La “sarma”: il carico di un asino/ mulo (l’equivalente di 100 kg)

Nella misurazione agraria invece il “mezzetto” era equivalente a circa 1.666 metri quadrati, la metà del “tomolo” (3.333 metri quadrati).

C’era poi la “misura” (circa 138 metri quadrati), equivalente alla dodicesima parte del “mezzetto” e il “quarto”, equivalente a sei “misure” di terra.

Tali unità di misura, ancora oggi utilizzate nelle conversazioni e nei riferimenti degli anziani, rimasero in vigore fino al 1885, anno in cui si decise di unificare le misure, non solo a livello italiano. (alcune note sono state tratte dal sito di Calitri)

 

Alcuni attrezzi della “grotta”

Lu tniegrh, lu r’zzul, la carrafa, la var’leggr’ (di legname), la tina, la vrocca (Quando si provava la qualità del vino si faceva la “vrocca alla votta” -buco nella botte- in cui si infilava la cannegrha’)

 

I parenti e gradi di parentela

Tata, tatucc’, mamma nonna, tatanonn’, papanonn’.

 
Le zone di Santomenna

A P’tregrh’ (dove hanno messo le pale eoliche), int a r Lavang’, lu Fussatigrh’, r Fumarole, r Carcarol’, a lu S’rron’, la Levata, la Preta de’ la grotta, lu C’nus’, r Costiannegrh’, S. Savastian’, lu T’rzit’, r Pere r callarol’, la Lampia, a la Funtana r vign’, lu Cument’, sop’ la Costa, a lu Vurv’, l’Ar’usta, int’a quer’ r Laviano, a la Forma, a Chianurtlan’, in t’ la Pezza, a l’Aulecena, a la Chiusa; ‘Nmocca a lu vosch’.

 

Soprannomi comuni

P’lican, Sarachella, Lu Cumbattent’, Lu Cardill’, Zi Invern’, Staccion’, Puzifort, Ciucculater’, Quir r’ Lena, Paulott’, Mariapalma, Tacciariegrh’, Sur’ cion’, Falasci’, La Sfaccimm’, Quir r’ Angelon’, La Bellagiovana, Captunn’, Scibbon’, La marmora, Z’infern.

 

              

           



 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
    
 




[1] Per alcuni termini ho fatto riferimento anche al sito:http://www.italiatua.it/info